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A cura di Giacomo Conserva




Vincent Van Gogh
Un pennello fremente di febbre e di emozione*

di Marco Nicastro

Dicembre 2014

Per colui che possiede curiosità artistica e sensibilità estetica, entrare in contatto da solo a solo con l’opera di Vincent Van Gogh, uno dei più originali pittori della storia dell’arte occidentale, è certamente esperienza entusiasmante. Nel museo della capitale olandese a lui dedicato (la cui visita ha fornito lo spunto ultimo per questo contributo) si può facilmente essere investiti dalla potenza dei suoi quadri che, pur riprendendo la lezione della pittura di Millet, di Rembrandt, Hals e altri fiamminghi (in particolare per la resa delle ombre e della luce o dei soggetti tratti da una realtà quotidiana priva di orpelli ma dalla forte carica sentimentale), di Delacroix e Rubens (per la loro sapienza nell’uso del colore), e infine dei suoi contemporanei più all’avanguardia, gli Impressionisti, presentano importantissimi elementi di novità, in particolare relativamente all’uso del colore e al modo di stenderlo sulla tela.

Da una serie di opere risalenti alla prima produzione artistica del pittore olandese, in cui egli cerca di perfezionare le sue capacità rappresentative rifacendosi prevalentemente ad un utilizzo del colore e ad una composizione del quadro vicini alla tradizione del realismo (soggetti umili, paesaggi rurali in toni scuri e tendenzialmente più cupi), si passa nei piani superiori del museo ai dipinti che tanto lo hanno reso famoso, coi loro colori sgargianti e puri, coi loro contrasti forti, con le peculiari pennellate, brutali e vorticose.

Vincent Van Gogh fu un pittore caratterizzato da una spasmodica tensione verso il miglioramento. In dieci anni di attività artistica ci ha lasciato più di 1000 disegni e schizzi e 800 tra dipinti e acquerelli. Disegnava innanzitutto per un fortissimo bisogno personale di catarsi e per la necessità di mantenere un equilibrio interiore:
Per dimenticare, mi sdraio sulla sabbia vicino a un vecchio tronco d’albero e ne faccio un disegno, fumando la pipa, guardando il cielo azzurro cupo o il muschio e l’erba. Questo mi calma (Lettere a Theo**, p. 126). […] ecco perché chiedo perentoriamente tela e colori: solo così sento la vita, quando riesco a spingere a fondo il lavoro (p. 281).

[…] quando uno ha dentro di sé il fuoco e l’anima non può reprimerli – e preferisce bruciare piuttosto che soffocare. Quello che si ha dentro deve uscire fuori. A me, ad esempio, dipingere un quadro permette di respirare, e se non lo facessi, mi sentirei più infelice di quanto non sia (“Lettera alla sorella Willemien”, Einaudi, p. 336).
Nei primi anni della sua attività ufficiale di pittore dedicò moltissime energie al perfezionamento della sua tecnica di rappresentazione della figura umana, forse anche perché essendo un autodidatta per vocazione e indole personale, si sentiva in difetto rispetto a chi era riuscito a seguire un percorso accademico tradizionale e ad essere riconosciuto come pittore a partire da esso. Il quadro a detta di molti più significativo di questo primo periodo è I mangiatori di patate (1885), nel quale è possibile individuare una grande attenzione e un religioso rispetto per la durezza della condizione in cui versavano specifiche categorie di lavoratori; la forza espressiva delle loro mani nodose e dei loro volti scavati e quasi caricaturali dice molto del tentativo dell’artista di creare volutamente nell’osservatore una forte impressione emotiva, che andasse al di là della semplice constatazione di una cruda realtà. Quest’opera rivela anche il suo autentico interesse per ciò che era umile, basso, scartato dagli altri.

Ancora ventenne, in un periodo di fervore religioso, andò a vivere per qualche tempo in un poverissimo paesino di minatori predicando il Vangelo in condizione di autentica povertà, cosa che gli attirò l’antipatia dello stesso clero locale che lo vedeva come un tipo eccentrico e pericoloso per il suo zelo così radicale. Van Gogh era un uomo che viveva di assoluti, capace di immergersi completamente in un’attività o in un progetto quando lo sentiva veramente suo, come fece, in una prima fase della sua vita, con la religione.

Tuttavia, la sua intolleranza alle regole, all’ipocrisia e all’ottusità propria di certi rituali di apprendimento tipici dei normali percorsi di studio e di formazione religiosa emerse ben presto. Ad esempio, a proposito della sua formazione da evangelizzatore, a quei tempi, diceva al fratello:
[…] Preferirei morire, piuttosto che venir preparato alla missione religiosa dall’accademia; e ho avuto una lezione da un falciatore tedesco che mi è servita assai più di una lezione di greco (Lettere a Theo, p. 80).
Ma ne aveva anche per i formatori nelle accademie d’arte, non meno ipocriti secondo lui:
Devi sapere che con gli artisti è la stessa cosa che con gli evangelisti. Esiste una vecchia scuola esecrabile, tirannica, l’esasperazione della desolazione insomma, uomini provvisti di una corazza, un’armatura di acciaio di pregiudizi e convenzioni; quando essi si trovano alla testa degli affari distribuiscono gli incarichi e con un sistema di aggiramento tentano di difendere i loro protetti e di escludere l’uomo semplice. […] Tale stato di cose ha il suo lato negativo per colui che dissente da tutto ciò e che protesta con tutta l’anima, con tutto il cuore, e con tutta l’indignazione di cui è capace. Per conto mio rispetto gli accademici che non sono come quelli là. […] Ora, una delle ragioni per cui sono fuori posto, per cui per anni sono stato fuori posto, è semplicemente perché ho idee diverse da quelle dei signori che danno lavoro ai tipi che la pensano come loro. Non è una questione di vestito, come mi è stato ipocritamente rimproverato, è una questione molto più seria, te lo assicuro (ivi, p. 84).
A causa di questa sua propensione a fare solo ciò che sentiva veramente contestando regole e consuetudini inveterate dovette presto uscire tumultuosamente dalla casa paterna, dove si sentì e fu sempre come un estraneo, specie dopo la sua decisione di abbandonare una vita lavorativa e un percorso formativo regolare, ma anche per le stranezze comportamentali, gli atteggiamenti estremi, e l’inclinazione alla libertà di pensiero e di condotta di cui egli fu sempre consapevole e orgoglioso:
Involontariamente sono diventato per la famiglia una specie di personaggio impossibile e sospetto. […] Io sono un uomo istintivo, capace di fare cose più o meno insensate, delle quali mi accade più tardi di pentirmi. Mi succede anche di parlare e agire un po’ troppo rapidamente, quando invece sarebbe meglio pazientare. […]. Ora, colui che è assorbito da tutte queste cose [lo studio della letteratura e dell’arte, ndr], diventa scandaloso, shocking per gli altri, e senza volerlo manca più o meno a certe forme e convenienze sociali. Però è un peccato prendersela a male (ivi, pp. 81-82).
Nonostante la sua sincera spinta umanitaria, che dimostrò di possedere anche quando concluse la sua fase di ricerca spirituale, si contrappose sempre alla religiosità bigotta dell’epoca incarnata per antonomasia dall’austera e limitata figura paterna. Di tale condizione, emblematico risulta il quadro realizzato subito dopo la morte del padre Natura morta con Bibbia (1885), in cui il pittore contrappone ai colori smorti di una vecchia Bibbia e di una candela spenta il giallo vivace di un piccolo libro moderno posto accanto, La joie de vivre di Emile Zola, uno dei suoi scrittori preferiti. Quei due libri vicini ma molto diversi rappresentano bene il rapporto di Van Gogh col padre e forse con l’autorità in generale: la ricchezza e la vitalità emotiva dell’esistenza che si contrappongono ad una condizione di freddezza e di insensatezza (il tutto realizzato magistralmente nel quadro attraverso il gioco di luce e il contrasto cromatico):
Papà non è un uomo per il quale posso sentire quello che sento per te [il fratello Theo, ndr]. […]Naturalmente gli voglio bene, ma si tratta di un sentimento del tutto diverso da quello che provo per te. […] Papà non può comprendermi e seguirmi; e io non posso accettare il suo sistema, che mi opprime e mi soffocherebbe (ivi, p. 108).
Forse proprio per questo mancato riconoscimento da parte della sua famiglia fu sempre forte il suo bisogno di riconciliazione e di calore umano, che finì per riversare tutto sul rapporto con Theo, con le donne, con gli altri artisti. L’amore per una donna, ad esempio, era per lui un’esperienza radicale come tutte quelle che viveva, non meno arricchente della pittura. Sentiva un profondo bisogno di comunione, di comprensione e di autenticità emotiva, aspetti che non riuscì mai a trovare durante la sua ricerca spirituale nell’ambito di un’istituzione religiosa. Cercò la soddisfazione di questo bisogno anche all’interno di un rapporto di coppia, un rapporto intensamente e matericamente vissuto come la composizione dei suoi dipinti:
Mi sentivo ancora raggelato fin nel profondo dell’anima dalla fredda parete di una chiesa, reale o immaginaria che fosse. E non volevo rimanerne stordito. Vorrei essere con una donna, mi dissi; non posso vivere senza amore, senza una donna. Non potrei apprezzare la vita se non ci fosse in essa qualcosa di infinito, di profondo, di reale. […] ho bisogno di una donna; non posso, non devo, non voglio vivere senza amore. Sono un uomo e come tale ho le mie passioni; devo andare da una donna se non voglio diventare di ghiaccio o di pietra. […] la scintilla di fuoco di cui abbisogniamo è l’amore, e non esattamente l’amore spirituale (ivi, p. 112).
Van Gogh fu un uomo continuamente alla ricerca della propria vocazione, del proprio modo di stare con gli altri e nel mondo, e con un bisogno di autenticità che lo macerava continuamente. Diceva al fratello:
il mio tormento non è altro che questo: in cosa potrò riuscire? […] A cosa potrei essere utile, a cosa potrei servire? C’è qualcosa in me; che è dunque? (ivi, p. 88).
Quando individuava una strada che riteneva potesse essere quella giusta vi si dedicava anima e corpo, mettendo a rischio perfino la propria sopravvivenza (come durante il periodo di predicazione presso il piccolo villaggio di minatori). Quando poi sentì, evidentemente a ragione, di aver trovato la sua vera strada, quella dell’arte, vi si gettò coerentemente a capofitto come a voler ricuperare il tempo perduto nei precedenti peregrinaggi esistenziali e con uno spirito di abnegazione ed un’umiltà fuori dal comune. Raggiunse con maggiore chiarezza questa consapevolezza in uno stato di miseria assoluta, dopo aver dormito all’addiaccio per giorni vagando per le campagne brumose del Borinage, costretto a scambiare alcuni suoi disegni per qualche pezzo di pane. Fu l’esito di un percorso di scarnificazione, quasi un viaggio a ritroso verso la semplicità e la ricchezza dell’essere originario:
Ebbene, è stato proprio in questa miseria che mi sono sentito ritornare la forza e mi sono detto « nonostante tutto ritornerò ancora a galla, riprenderò la matita che ho abbandonato nel mio grande scoraggiamento e mi rimetterò a disegnare». E da allora mi sembra che sia tutto cambiato per me, e ora sono in cammino, e la mia matita è diventata un poco più docile e sembra diventarlo di più giorno per giorno (ivi, p. 91).
Sentiva di essere portato per l’arte — d’altronde alcune sue abilità comparvero relativamente presto nella sua vita, come ci è dato sapere da alcuni schizzi giovanili pervenutici —, forse anche di avere un talento, ma questo non rallentò mai la sua ansia di ricerca, di perfezionamento, di autocorrezione, né il bisogno di un confronto schietto e leale con altri artisti ed intenditori d’arte. Il dialogo ed il confronto con suo fratello, con alcuni amici e soprattutto con altri colleghi, era per lui un pensiero fisso, una condizione imprescindibile per la crescita artistica e personale. Si sentiva un pittore, lo dichiarava apertamente, ma intendendo con ciò non una condizione di privilegio acquisita quanto piuttosto una condizione di ricerca dolorosa, di esplorazione di linguaggi diversi dal proprio, in un processo di evoluzione continuo che prevedeva la necessità di confrontarsi e di apprendere da scuole artistiche diverse, senza limitarsi a seguire un sistema, per quanto riconosciuto o apprezzato.
Quanto a Mauve [pittore fiammingo sposato con una cugina di Van Gogh, ndr], gli sono molto affezionato e mi considero fortunato di poter imparare da lui; ma non posso limitarmi a un unico sistema o ad un’unica scuola. Amo anche altri che sono diversi da lui e lavorano in modo del tutto diverso. Mauve si offende del fatto che io abbia detto «sono un artista» cosa che non intendo ritrattare, perché, naturalmente, un significato aggiunto di questa parola è: «sempre alla ricerca, senza mai trovare». Per me il termine significa: «sto cercando, sto lottando, ci sono dentro con tutte le mie forze» (ivi, pp. 118-122).
Van Gogh dimostra come l’arte, quella autentica, non sia un esercizio solipsistico di creazione quanto piuttosto un’attività legata alla dimensione dell’altro, alla necessità di comunicare agli altri il proprio Sé e di confrontarsi con quanto di tale comunicazione gli altri recepiscono. Ciò che lo faceva soffrire non erano tanto le critiche quanto la difficoltà a trovare dei partner tolleranti e rispettosi capaci di mettersi in relazione innanzitutto con lui, in quanto uomo, e con la sua pittura in quanto suo prodotto più autentico, invece che lasciarsi bloccare dalle sue ruvidità e dalle sue eccentriche apparenze, oppure da pregiudizi sul modo giusto o sbagliato di fare arte.

Questo bisogno di sincero contatto umano prima di ogni cosa fu sempre centrale nella sua vicenda:
Quando si vive con gli altri e si è uniti ad essi da un affetto sincero si è consapevoli di avere una ragione di vita e non ci si sente più del tutto inutili e superflui: abbiamo bisogno l’uno dell’altro per compiere lo stesso cammino e la stima che abbiamo di noi stessi dipende molto anche dai nostri rapporti col prossimo […] Io sento il bisogno di una famiglia, di affetto, di rapporti cordiali col prossimo; non posso vivere privo di tutto questo senza sentire un profondo senso di vuoto (ivi, p. 79).
Per un uomo come lui alla strenua ricerca della propria dimensione esistenziale, bisognoso di relazioni calde e di comprensione, l’indifferenza o il rifiuto degli altri erano devastanti; anche perché quel rifiuto veniva solitamente rivolto non solo alla sua arte e alle sue idee sull’arte, ma alla sua persona, a quel suo singolare modo di essere per cui tanto aveva sofferto e lottato prima di definirlo. Ciò che per lui era una conquista esistenziale, l’esito prezioso di un cammino verso l’autenticità, molti lo scartavano con ribrezzo. I rifiuti che ricevette in amore lo segnarono per l’ipocrisia e il disprezzo con cui vennero dati; come pure lo segnò l’intenzione di suo padre di farlo internare, ancora giovane, per le sue scelte di vita. Il suo modo di essere, lontano dal modus vivendi di molti suoi contemporanei, era considerato follia. Così la difesa strenua del proprio sentire più profondo e della propria individualità e unicità come artista s’impose fin dall’inizio della sua carriera e costituì un leitmotiv anche della sua esperienza di pittore oltre che della sua vita.

Tuttavia, nonostante le asperità caratteriali Van Gogh riusciva ad essere un amico fedele. Quando si legava ad una persona credeva fermamente nel valore di quel rapporto, portandolo avanti al di là di tutto, se necessario. La pittura divenne sì, ad un certo momento, lo scopo primario della sua esistenza, ma i rapporti interpersonali e la necessità di calore umano costituirono sempre un elemento altrettanto importante nella sua vita. Ciò è testimoniato emblematicamente dalla sua relazione con la prostituta Sien e il figlio di questa, di cui si prese cura amorevolmente per un lungo periodo — pur nella propria miseria — donando loro una casa ed un po’ di tranquillità. La relazione suscitò comprensibilmente scandalo e venne duramente osteggiata dai suoi familiari, innanzitutto. Ma lui continuò a crederci e a difenderla strenuamente, fino a quando fu costretto a scegliere con dolore tra il suo sostentamento — personale e artistico — garantito dal fratello, e quell’amore così singolare e disinteressato. D’altronde, l’altruismo per Vincent era la via privilegiata per reagire alla depressione e alle sconfitte della vita: decise di diventare missionario e di dedicarsi agli ultimi dopo la sua prima grande delusione amorosa in età giovanile; poi si dedicò a Sien, dopo aver visto crollare le proprie speranze di fidanzamento con la cugina Kee. E che dire infine del suo desiderio, in un periodo particolarmente critico della sua vita, di fondare ad Arles la “Casa gialla”, un luogo da lui immaginato e progettato, che doveva accogliere artisti per dipingere, dialogare, confrontarsi e trarre reciprocamente ispirazione? Non era forse terribilmente altruistico, cioè mirante al superamento del proprio ego e delle proprie ambizioni solipsistiche, il progetto di creare una comune di artisti che si scambiassero stimoli e lavori, che si nutrissero intellettualmente a vicenda? Questa casa doveva essere un luogo di rinascita; gialla, del colore del sole fonte di vita (il giallo divenne poi il colore di Van Gogh per antonomasia), avrebbe visto alle pareti i suoi girasoli, anch’essi gialli. Quasi il sogno di un’immersione, assieme ad altri artisti, in un mondo di luce nel quale e a partire dal quale poter creare.

Colpisce poi la forza nel credere ai propri sentimenti e alle proprie idee, che probabilmente gli garantì la perseveranza necessaria nel corso della sua poco considerata carriera artistica e di un’esistenza spesso così grama; egli ne aveva già dato prova in gioventù, quando l’amore controverso ed unilaterale verso una cugina lo portò a insistere per tre giorni coi suoi genitori solo per avere un colloquio chiarificatore con lei (rischiando di bruciarsi una mano per provare la serietà dei suoi intenti!); oppure quando percorse quasi 70 chilometri a piedi per raggiungere la casa di un pittore olandese suo contemporaneo che ammirava, per poi tornarsene immediatamente indietro senza nemmeno presentarsi, colpito e deluso dall’aspetto freddamente ordinario del suo studio.

Questa forza caratteriale, questa potenza dell’immaginazione e del sentimento, indici di una personalità estremamente vitale, egli le traspose nella propria arte, ritengo primariamente attraverso tre elementi: il particolare dinamismo della pennellata, il carattere materico dei suoi dipinti, l’uso del colore.
Che grandi invenzioni sono il tono e il colore! E chiunque non impari a sentirli, vive lontano dalla vera vita (ivi, p. 107, corsivo mio). […] So per certo che possiedo un istinto per il colore e che mi verrà sempre di più e che la pittura l’ho fin nel midollo delle ossa (ivi, p. 161).
Per Van Gogh il colore era sentimento e vita. Egli vedeva la realtà come un’infinita gradazione di colore, comprendendola essenzialmente sulla base dei colori. Solo che possedeva un apparato percettivo, sia in termini cognitivi che emotivi, decisamente più sensibile del normale. Egli non solo percepiva in modo abnorme, ma reinterpretava ed esprimeva la realtà in modo assolutamente originale, sulla base del fortissimo sommovimento interiore che gli stimoli fisici avevano determinato in lui.
Voglio passare attraverso le gioie e i dolori della vita per poterli dipingere dalla mia esperienza personale (ivi, p. 127, corsivo mio). Vedo disegni e dipinti nelle capanne più povere, nell’angolo più lurido. E la mia mente è attratta da queste cose come una forza irresistibile. Le altre cose vanno perdendo sempre più interesse e più me ne libero, più rapidamente il mio occhio afferra le cose per il loro valore pittorico (ivi, p. 153).
Van Gogh non voleva rappresentare la realtà, avvicinarsi ad essa nel senso consueto del termine, cioè attraverso un perfezionamento della tecnica figurativa (almeno da un certo periodo della sua vita artistica in poi). Egli voleva più che altro ricreare nel quadro la realtà così come lui la vedeva, ossia attraverso il filtro delle sue emozioni e della sua concezione coloristica.
Colorista è l’uomo che sa subito come analizzare un colore quando lo vede in natura e dice, ad esempio: «quel grigio-verde è giallo, più nero e blu». In altre parole, l’uomo che sa trovare i grigi della natura sulla sua tavolozza. […] è dovere del pittore essere completamente preso dalla natura e usare tutta la sua intelligenza nel suo lavoro per esprimere il sentimento (ivi, pp. 155-156).
[…] Invece di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi mi servo del colore in modo più arbitrario per esprimermi con intensità (ivi, p. 287).
L’uso estremamente personalizzato dei colori in tinte pure e i contrasti cromatici tra complementari per risaltarne la potenza determinavano effetti parossistici, come quelli che probabilmente lui, non senza tremore, riusciva in certi momenti a esperire. Un esempio emblematico di questa acutissima suscettibilità cromatica, usata per esprimere stati interiori estremi, è il dipinto Il Caffè di notte (1888), in cui il pittore crea un effetto allucinato della scena attraverso il forte e inquietante contrasto tra i colori complementari — rosso e verde — delle pareti, dei tavoli e della superficie del biliardo. La corposità del colore presente un po’ in tutto il quadro serve a ricreare una scena realistica, come a dire che quelle emozioni così intense rappresentate dai colori accesi sono una realtà concreta, viva, possibile. La realtà che il pittore voleva descrivere era quella dei Caffè, posti dove secondo lui un uomo poteva rovinarsi, diventare pazzo, perfino commettere dei crimini. E forse anche per la prospettiva non proprio convenzionale del dipinto si ha quasi l’impressione di poter entrare nella scena e di essere travolti da quell’ondeggiamento percettivo ed emotivo reso magnificamente anche tramite il giallo vibrante delle lampade.

L’utilizzo poco convenzionale del colore per esprimere stati d’animo estremi ed una visione non convenzionale della realtà è visibile anche in alcuni ritratti; ne ricordo uno tra i tanti che potrebbero essere presi ad esempio: il Ritratto di Camille Roulin (1888).

In questo dipinto, l’accostamento verde-rosso e giallo-blu genera un effetto di rafforzamento reciproco esagerato (contrasto che nelle riproduzioni che ho avuto modo di analizzare è sempre ben lontano dall’originale, capace invece di suscitare un’emozione di viva sorpresa quando vi si posano gli occhi per la prima volta); questo effetto, unito alle brevi pennellate che ricordano la tecnica impressionista, lascia addosso a chi guarda la sensazione di una straordinaria energia che effonde dalla figura del ragazzino, probabilmente corrispondente all’energia che Van Gogh sentiva crescere dentro di sé alla visione di quel soggetto. Ecco come egli, da un certo momento in poi, riuscì a concepire il ritratto, secondo quella reinterpretazione assolutamente soggettiva del dato reale:
Vorrei fare un ritratto di un amico artista, che sogna i grandi sogni, che lavora come l’usignolo canta, perché è questa la sua natura. Quest’uomo >dovrebbe essere biondo. E vorrei mettere nel quadro la stima e l’amore che ho per lui. Lo ritrarrei dunque così come è, il più fedelmente possibile per cominciare. Ma il quadro non sarebbe terminato così; per finirlo farò il colorista arbitrario. Esagererò il biondo dei capelli arrivando ai toni arancione, ai giallo cromo, al limone pallido. Dietro la testa, invece di dipingere il muro banale del misero appartamento, dipingerò l’infinito, farò uno sfondo semplice del blu più ricco, più intenso che riuscirò ad ottenere. Questa semplice combinazione, la testa bionda illuminata da questo blu sontuoso, rende un effetto misterioso come di stella nell’azzurro profondo (ivi, p. 288, corsivo mio).
Il colore diventa così l’elemento che permette a Van Gogh di realizzare la sua visione della realtà, di permettergli di piegarla alle sue esigenze e tensioni interiori.

Tuttavia, probabilmente era nel confronto con la natura che Van Gogh riusciva a dare il meglio di sé. Dinnanzi alla natura, come abbiamo detto, egli si ritrovava, riusciva a calmarsi.
Comincio ad essere così abituato a rimanere seduto direttamente davanti alla natura che riesco a lasciare libera la mia sensibilità personale molto di più rispetto all’inizio; mi gira meno la testa, e a volte mi sento più me stesso proprio quando sono davanti alla natura (Lettere ad Anthon Van Rappard, Einaudi, p. 224; corsivo dell’autore).
[…] Non è il linguaggio dei pittori ma quello della natura che bisogna ascoltare. Il sentimento che suscitano le cose stesse, la realtà infine, è più importante dei sentimenti che suscitano i dipinti (Lettere a Theo, p. 153).
La natura era una sorta di madre a cui egli riusciva a tornare per ritemprarsi dopo i momenti di sconvolgimento emotivo o le crisi depressive. Ad essa si abbandonava e da quel contatto spesso ne usciva più fiducioso, più creativo, seppur solo:
Mi sono lasciato impregnare dall’aria delle colline e dei frutteti. La mia ambizione si limita a qualche zolla di terra, al grano che germoglia. Un uliveto, un cipresso… (Lettera a E. Bernard, p. 641).

Che altro si può fare, pensando a qualsiasi cosa di cui non si capisca la ragione, se non guardare i campi di grano? […] Io ho bisogno di vedere i campi di grano e difficilmente potrei sopravvivere a lungo in una città. (Lettera a Willemien, p. 612).
Questo amore per la natura, questa propensione ad un rapporto diretto ed intenso con lei si evincono dalle dettagliate e delicate descrizioni di paesaggi che lo avevano ispirato e dal desiderio di creare materialmente sulla tela quella realtà così esteticamente preziosa che era riuscito a cogliere di volta in volta. L’impressione che spesso lasciano nel lettore certi suoi resoconti (oltre che, ovviamente, molti suoi dipinti) è che egli volesse quasi far sorgere concretamente dalla tela quella realtà che percepiva tanto intensamente — direi quasi eroticamente — e l’unico modo che aveva per fare ciò era, più che la forma della rappresentazione, il colore, nelle sue componenti cromatiche e materiche.
Mi ha colpito con quanta solidità quei piccoli tronchi fossero radicati al suolo. Iniziai a dipingerli col pennello, ma le pennellate vi si perdevano. Così le radici e i tronchi li strizzai fuori dal tubetto e li modellai un poco col pennello. Sì, ora che stanno lì, sorgono dal suolo, profondamente radicati in esso (Lettera a Theo, p. 160, corsivo mio).

[…] Ultimamente, mentre dipingevo, ho sentito una certa potenza coloristica che si andava risvegliando in me, più forte e diversa da quella sentita finora.[…] ho cercato spesso di lavorare in una maniera meno arida; ma ora che una certa debolezza mi impedisce di lavorare nel solito modo, sembra che potrebbe aiutarmi più che ostacolarmi; ora che mi lascio andare un po’ e guardo un po’ più di traverso le ciglia anziché fissare intensamente e analizzare la struttura delle cose, sono direttamente portato a vedere le cose più come macchie di colore in contrasto reciproco tra loro (ivi, p. 197, corsivo mio).
L’allentamento dei nessi strutturali delle cose e l’aggiramento del modo convenzionale di rappresentarle e perfino di percepirle, dovuto forse anche allo stato di debilitazione fisica in cui egli si trovava spesso a lavorare per le precarie condizioni economiche, facilitarono da un certo momento in poi il sorgere di una nuova concezione della rappresentazione. Del resto per lui i dolori e l’angoscia vera della creazione artistica avevano inizio solo quando si abbandonava l’ambito della descrizione, cioè l’aderenza convenzionale al soggetto rappresentato.

Questa concezione prevedeva dunque un superamento della forma a favore di un uso soggettivo non solo dei colori ma anche del pennello, un utilizzo che fosse funzionale ad esprimere qualcosa del mondo interno del pittore che nella realtà non c’era.

Il pennello in quanto prolungamento della corporeità dell’artista doveva trasmettere qualcosa di lui, ad esempio delle sue emozioni dinnanzi alla realtà rappresentata, ma anche qualcosa di essenziale della realtà stessa — potremmo dire in nuce — contribuendo, assieme al carattere materico del colore, ad un’emersione più viva del soggetto dalla tela. Attraverso le pennellate ora lievi e veloci, ora ruvide, ora vorticose, Van Gogh voleva rappresentare il dinamismo e la vitalità sempre in fermento dell’esistenza che riusciva a percepire tanto intensamente soprattutto dinnanzi alla natura, il suo soggetto preferito. E riusciva talmente bene in ciò che dinnanzi a Campo di grano con allodola (1887) si può quasi sentire il vento uscire dalla tela, il lieve fruscio del grano che ondeggia, la sua fragranza, e una profonda sensazione di solitudine e di pace. L’effetto è ottenuto grazie alle delicate e precise variazioni cromatiche e all’uso del pennello; pennellate veloci prevalentemente verso un’unica direzione — sia per dipingere il cielo con le nubi, sia per dipingere il grano verde — che generano un effetto estremamente dinamico e armonico al tempo stesso.

La tecnica fu per lui un modo per arrivare meglio allo scopo finale della ricerca artistica — la scoperta e la definizione dell’autenticità di ogni artista — e non il fine principale da raggiungere per potersi definire un artista vero. La tecnica doveva sottostare a quella che lui definiva espressione dell’artista, e se in qualche modo poteva essere d’intralcio al raggiungimento di quello scopo era meglio abbandonarla. La tecnica poteva offrire i mezzi per esprimere la propria sensibilità estetica, ma tali mezzi dovevano essere usati in modo essenziale e parsimonioso affinché non nascondessero l’artista. Il rischio era altrimenti che questi avrebbe potuto soffocare la propria originalità e l’autentica portata del proprio messaggio.

D’altronde per Van Gogh l’arte doveva essere azione ispirata:
Nella vita come nel disegno bisogna a volte agire con rapidità e decisione, prendere a fare una cosa con energia e disegnare i contorni con la rapidità di un lampo. E bisogna essere tanto compresi nella cosa che in breve tempo si traccia sulla carta o sulla tela ciò che prima non c’era e in un modo che uno non sa bene come sia riuscito ad imprimerlo [corsivo mio, ndr]. Non c’è posto per la riflessione o le controversie nell’azione in sé. L’agire velocemente è una funzione dell’uomo e bisogna passarne di ogni sorta prima di essere in grado di farlo. Il nocchiero a volte riesce a servirsi della tempesta per poter portare avanti la nave, anziché lasciarla affondare (ivi, p. 136).

[…] è l’emozione e la sincerità del senso della natura che ci conducono, e queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora senza accorgerci del lavoro, e talvolta le pennellate vengono giù una dopo l’altra — e i rapporti di colori — come le parole in un discorso […] (ivi, p. 279).
Certo, agli altri Van Gogh doveva apparire come un uomo piuttosto strano; preso com’era dalla sua arte, dalla sua passione, dalla noncuranza per le convenzioni sociali (prima tra tutte la cura di sé). Ancora giovane pareva già da tempo vecchio e trasandato. Difficilmente tollerava le imposizioni che derivano da attività regolamentate gerarchicamente, come difficilmente sopportava le costrizioni nel seguire un metodo che soffocasse la libertà di esplorare e di creare secondo le proprie esigenze. Ciò lo portò ad abbandonare diversi lavori e percorsi di studio accademici e a incrinare dei rapporti di amicizia con altri artisti. Di queste sue inclinazioni egli non fece mai mistero:
In un certo senso sono lieto di non aver imparato a dipingere, perché in tal caso potrei aver imparato a trascurare un effetto come questo [gli effetti cromatici e materici, ndr]. […] ma trovo che nel mio lavoro c’è in fondo un’eco di quello che mi ha colpito. Vedo che la natura mi ha detto qualcosa, mi ha rivolto la parola e che io l’ho trascritta. […] e non si tratta del linguaggio addomesticato o convenzionale, che è oggetto di studio, derivato dalla maniera o da un metodo (ibidem, p. 160).
[…] A volte mi è difficile rinunciare ad un’amicizia, ma se dovessi entrare in uno studio per essere costretto a pensare e parlare di cose senza alcuna importanza, a evitare qualunque cosa seria e a non esprimere i miei veri sentimenti sull’arte, ciò mi renderebbe più malinconico che se dovessi starne lontano del tutto. Proprio perché mi piacerebbe trovare e conservare un’amicizia vera, mi è difficile adattarmi a un’amicizia convenzionale (ivi, p. 171).
Di certo da questo ed altri passi già citati si può notare un certo assolutismo di vedute ed una tendenza a idealizzare i rapporti di amicizia tra gli esseri umani; come pure si può arguire una scarsa tolleranza alle critiche da parte delle persone a lui più vicine, specie se rivolte al suo continuo sforzo verso il raggiungimento dell’autenticità nel modo di essere uomo e pittore. Il bisogno di sostegno emotivo e di approvazione dalle persone con cui stabiliva legami significativi e l’impulsività nelle reazioni che seguivano sistematicamente alla frustrazione di quei bisogni giocarono un ruolo importante nel compromettere molte rapporti nel corso della sua esistenza. Del resto ciò è coerente con il suo percorso di crescita, segnato dalla pressione di un ambiente familiare bigotto che si ostinava a non capire — e forse non poteva — le urgenze di verità e di autenticità che caratterizzarono fin da giovanissimo il Nostro.

Van Gogh poté sopravvivere, non solo materialmente ma forse anche psichicamente, solo grazie al costante e amorevole finanziamento del fratello Theo, l’unico che gli rimase affettivamente vicino per tutta la vita. Nonostante quell’aiuto, egli viveva comunque tra mille difficoltà perché buona parte del denaro era usato per acquistare il materiale per dipingere; e dipingendo moltissimo, era costretto a lesinare sul cibo, i vestiti, e altri minimi confort. Come si può pensare di vivere di sola arte, di nutrirsi e di vivere quotidianamente di sola arte, si chiederebbero le persone assennate?

Il fatto è che per Van Gogh la pittura non era solo un’attività artistica; essa era la vita stessa, la vita come a lui si manifestava e il modo migliore per comunicare col mondo. Egli amava lasciarsi trapassare dalla vita, passando intere giornate all’aria aperta, passeggiando per chilometri immerso nella natura; si lasciava impressionare dalla visione di un volto o dalla contemplazione di un paesaggio e sentiva poi il bisogno di trasmettere ogni impressione, ogni sentimento, ogni movimento interiore che da tali visioni derivavano attraverso il suo pennello. I movimenti forti, ruvidi e tormentati di esso, i colori che usava erano le vibrazioni fisiche ed emotive che lo scontro con la realtà generava in lui. Egli era in un modo nuovo, ingenuamente e totalmente, un trasmettitore della potenza e del dinamismo della vita, delle sue pulsazioni e della sua bellezza violenta.

Tuttavia, nonostante certi estremismi e stranezze, dalle sue lettere si può scorgere una lucidità, una consequenzialità logica nei ragionamenti, una finezza di analisi interiore, una consapevolezza delle proprie difficoltà caratteriali, un trasporto emotivo ed un interesse per l’altro, che non sono tipici di un quadro di deterioramento psicotico. Furono piuttosto, a mio parere, le penose condizioni di deprivazione materiale in cui visse per tanti anni (scarsa alimentazione, fumo e uso di alcool, preoccupazioni quotidiane di sopravvivenza), la continua sottovalutazione dei suoi ideali puri di amicizia o di amore, e soprattutto l’indifferenza verso la sua arte — la strada privilegiata e per lui più autentica di espressione — a debilitarlo moralmente e psichicamente, ad isolarlo sempre più dal resto della comunità e, conseguentemente, ad accentuare ancora di più la sua sensibilità fuori dal comune ed i suoi nodi caratteriali più critici evidenti fin dalla giovinezza (una propensione all’impulsività, una certa visione idealizzata dei rapporti interpersonali, una fragilità narcisistica che lo inclinava alla depressione).

La salute psichica non è una condizione data a priori e tendenzialmente stabile garantita da una favorevole dotazione genetica o da alcune buone esperienze educative dell’infanzia. Questi elementi certo svolgono un ruolo molto importante nel favorirne la comparsa e nel mantenerla più a lungo nel tempo, ma non saranno mai in grado di spiegare da soli la complessità di un essere umano e della sua vicenda esistenziale. Ognuno di noi si muove piuttosto lungo un continuum di equilibrio psichico nel corso della propria esistenza e su di esso influiranno in senso positivo o negativo anche le condizioni di vita materiali e le risposte che l’ambiente familiare o sociale in senso ampio sapranno dare a determinati bisogni personali, sia consapevoli che inconsci, propri di uno specifico individuo durante le diverse fasi evolutive della sua vita.

Nessuno può garantire per la propria salute mentale essenzialmente sulla base del proprio passato; altri fattori incidono, e c’è sempre un punto di rottura che può essere oltrepassato a causa dell’impatto di eventi traumatici o di condizioni di vita oggettivamente molti difficili da tollerare per la psiche del singolo. Le condizioni materiali precarie, la scarsa cura di sé, la mancata accettazione di molti e l’isolamento in cui Van Gogh si trovò a vivere per lunghi anni probabilmente acuirono le sue fragilità e alterarono progressivamente il suo equilibrio; tale condizione lo portò a uscire sempre più spesso dal consesso umano coi suoi accessi psichici, ma anche ad incrementare ulteriormente la sua già profondissima sensibilità umana ed estetico/percettiva fino a limiti intollerabili.

Vincent Van Gogh è una figura troppo articolata per poterla definire tramite certe categorie che la psichiatria tradizionale ha usato nei suoi confronti: schizofrenico, epilettico, maniaco-depresso. Fu un uomo veramente altruista, che non seppe mai colpevolizzare gli altri per le proprie sventure, preferendo di gran lunga scagliarsi invece contro sé stesso, anche violentemente, specie quando si trovava isolato dal resto della comunità, impossibilitato a quello scambio umano ed artistico per lui tanto necessario. Affetto da un’abnorme sensibilità nei confronti della realtà sentiva di essere, ed effettivamente era, un uomo le cui “porte della percezione” furono sempre molto più aperte rispetto alle persone comuni e probabilmente anche rispetto a tanti altri artisti; tale apertura favoriva l’ingresso di un’eccessiva quantità di realtà cui egli in certi momenti non riusciva a resistere e che lo portava ad una condizione esistenziale parossistica che potremmo definire anomala.

L’arte era l’unico aspetto della vita e l’unico strumento col quale egli riusciva a liberarsi da questo eccessivo ingresso di realtà, trovando un modo per elaborarla e comunicarcela così come lui la percepiva. I contrasti cromatici, le continue sovrapposizioni delle tinte pure, gli addensamenti di colore, le sue pennellate così tortuose e dinamiche non sono altro che ciò che in certi momenti egli, esasperato e immerso nella solitudine, riusciva a percepire e che cercava strenuamente di condividere per allentare la tensione e l’estasi, trattandosi di stati interiori che rischiavano di fargli letteralmente scoppiare il cuore. La sua pittura densa e materica era il simbolo della consistenza della vita, della densità di significato e di bellezza che egli vi percepiva e di un desiderio quasi carnale di radicamento in essa; i colori così netti e decisi rappresentavano la sua capacità di commuoversi estaticamente dinnanzi alla realtà, di risuonare di luce di fronte al suo continuo spettacolo; infine i movimenti del pennello così forti e coraggiosi, a volte ruvidi, simboleggiavano il continuo evolversi della vita, il suo fluire ininterrotto che finisce per travolgere chi riesce ad immergersi nella sua contemplazione.

Gli accessi di Van Gogh, a mio avviso, furono proprio causati da un’incapacità di contenere in certi momenti questa sua mobilità interiore, questo pieno di vita che solo l’arte gli permise di esprimere ma che gli uomini che lo circondavano, purtroppo per lui, non riuscirono a comprendere appieno, rimanendo perlopiù abbastanza indifferenti a quel tentativo di comunicazione, o disprezzando la sua persona.

La sua produzione pittorica, specie quella dell’ultimo periodo, fu l’estremo tentativo di reagire alla propria solitudine alzando, per così dire, il volume della propria voce interiore. Si spinse nel Sud della Francia per trovare ispirazione, o meglio «per vedere un’altra luce, per vedere questo sole più forte». Egli, immalinconitosi molto negli ultimi anni, sempre più stanco e debilitato fisicamente, sempre più disilluso relativamente al destino dei propri quadri e dell’arte in generale, ma pur sempre innamorato della vita — «mi piace vedere gente e cose, e mi piace tutto ciò che costituisce la nostra vita» — ci regalò i suoi più grandi capolavori, dipinti di un’originalità cromatica e tecnica assoluta.

Come in passato Van Gogh aveva più volte cercato di sconfiggere la depressione e la solitudine rendendosi utile agli altri, mettendosi evangelicamente al servizio degli altri (dei poveri, degli sfruttati, degli emarginati), così, in seguito, egli usò la sua arte per mettersi al servizio di tutta l’umanità, per donare e condividere la sua ricchezza interiore così potentemente sbocciata, specie con l’acuirsi della sua sofferenza e della sua solitudine.

Ciò che lo prostrò definitivamente negli ultimi anni della sua vita fu soprattutto la consapevolezza lucida della cecità del mondo dinnanzi al massacrante lavoro di molti artisti, la difficoltà dell’arte di farsi ascoltare, di poter essere apprezzata e riconosciuta, soprattutto se proponeva coraggiosamente una sensibilità nuova; infine, la miseria, l’isolamento, l’abbattimento cui spesso era destinato l’artista, in molti casi impossibilitato anche solo a sopravvivere del suo lavoro. E i vistosi riconoscimenti che alcuni pittori ottenevano solo molto tempo dopo la loro morte, dopo essere vissuti in condizioni di povertà assoluta, non erano per lui che ulteriori schiaffi della società in faccia alla nobiltà dell’intento artistico, movimenti di pochi utili solo a speculare economicamente su dei capolavori senza che da ciò potesse poi trarne qualche beneficio chi l’arte la praticava umilmente giorno per giorno, senza che le persone comuni, o i poveri, potessero poi accedere più facilmente alla conoscenza dell’operato degli artisti, esserne istruiti e goderne.

In uno dei suoi ultimi accessi Van Gogh cercò di ingerire alcuni colori. Al di là dell’alterazione psichica da cui può evidentemente sorgere questo gesto, non è forse possibile vedervi anche la drammatizzazione parossistica di uno dei principali scopi della sua vita, quella di comprendere così a fondo i colori della realtà da appropriarsene, fino a divenire colore lui stesso? Quello di identificarsi definitivamente con la potenza espressiva e coloristica dell’arte così come lui la intendeva?

E proprio sulla base di queste dinamiche e di un potente simbolismo di fondo mi piace leggere il suo gesto estremo che per me non fu un tentativo di suicidio convinto, generato dall’odio verso la vita e verso sé stesso, nutrito da una perdita di interesse per gli aspetti piacevoli o gratificanti dell’esistenza. Forse egli cercò di colpire e di sedare quel cuore che a volte più che pulsare scoppiava letteralmente di vita dinnanzi alla grandezza delle cose; un turbinio di sensazioni che solo attraverso l’arte poteva adeguatamente rappresentare e significare, in un cammino di esplorazione sempre più estrema del colore e di sé stesso. Un percorso, un’evoluzione umana e artistica che non era riuscito a condividere veramente con nessuno come invece avrebbe fortemente voluto.

Ho appena mandato a Theo una dozzina di disegni di tele a cui sto lavorando, mentre per il resto la mia esistenza è vacua come quando, a 12 anni, ero in collegio senza imparare niente di niente. Un sacco di pittori che di certo non farebbero le mie 12 tele né in 2 né in 12 mesi stanno in città o in campagna, considerati artisti e persone intelligenti. […] Tra artisti non sappiamo più cosa dirci, non sappiamo se riderne o piangerne, e non facendo né l’una né l’altra cosa, beh, ci riteniamo soddisfatti quando abbiamo un po’ di colore e di tela, che a volte ci mancano, e possiamo almeno lavorare. Ma qualunque idea di vita regolare, qualunque idea di risvegliare in noi o in altri pensieri o sensazioni dolci, tutto ciò deve necessariamente sembrarci pura utopia. Così, benché l’Angelus di Millet sia stato pagato oltre mezzo milione di franchi non credere che più anime percepiranno ciò che c’era nell’anima di Millet. Oppure che borghesi o operai cominceranno a mettersi in casa, per esempio, la litografia di quell’Angelus. Non credere che perciò i pittori che lavorano ancora in Bretagna tra i contadini ne ricaveranno più sostegno, meno miseria nera come quella in cui è sempre vissuto Millet, né soprattutto più coraggio. Spesso, purtroppo, ci mancano il fiato e la fede. Però se vogliamo lavorare dobbiamo assoggettarci sia alla tenace crudeltà dei tempi sia al nostro isolamento, a volte difficile da sopportare quanto l’esilio. Ma di fronte a noi, dopo gli anni così relativamente perduti, stanno la povertà, la malattia, la vecchiaia, la follia, e sempre l’esilio.
[…] Che altro si può fare, pensando a qualsiasi cosa di cui non si capisca la ragione, se non guardare i campi di grano? Non dobbiamo forse, per lo meno, rassegnarci a crescere senza poterci muovere, come una pianta, rispetto a ciò che talvolta la nostra immaginazione desidera, e ad essere falciati quando saremo maturi come il grano? (Lettera a Willemien, pp. 610-612, corsivo mio).

* Espressione usata da Van Gogh in un’analogia tra l’opera di Rembrandt in pittura e quella di Shakespeare in letteratura (lettera a Theo del 24 giugno 1880).
** I brani delle lettere di Van Gogh al fratello Theo sono tratti da Lettere a Theo, a cura di M. Cescon, Guanda, Parma 1984; in tutti gli altri casi da Lettere, a cura di Cynthia Saltzman, traduzione di Margherita Botto, Laura Pignatti e Chiara Stangalino, Einaudi, Torino 2013.



Van Gogh, Campo di grano con allodole, giugno-liglio 1887.

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